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Acquamarina

Quella sera di Ferragosto le strade erano congestionate e, con disappunto, non ricordavo bene il percorso per raggiungere la villa di Alessio.

A Marina di Ragusa concludevo le mie ferie in giro per la Sicilia, terra che incessantemente mi sussurra dentro i suoi profumi, l’intensità dei tramonti, la poesia del mare.

L’auto procedeva lentamente in un dedalo di viuzze popolato di gente. La voglia di festa si spandeva nell’aria addolcita dagli umori della macchia mediterranea e dall’olezzo dei gelsomini, che mi penetravano fino a rinvenire quei giorni polverosi, goduti con gli amici tra la spiaggia e il boschetto.

Tutto tornava ad accomodarsi nel solco delle memorie, in attesa di passaggi a ritroso, dove riacciuffare vecchi tempi e leggerezze sopite.

Arrivai a destinazione in ritardo. Enjoy the Silence filtrava nel vicolo impregnato di un chiarore lunare generoso.

Il cancello era aperto e trovai a stento un posto per parcheggiare. Il chiacchiericcio e le risate rimbalzavano come gocce di cristallo in mezzo a un coro di invisibili cicale.

 

“Sergio, che bello rivederti, ce l’hai fatta, finalmente!” Alessio mi abbracciò con quel solito piglio accogliente che marcava la pelle.

La sua giovialità non era stata intaccata dagli anni. Il pizzo nero sul mento, lungo fino a sfiorare la maglietta gialla, gli occhi sinceri in un cespuglio di rughe sottili, l’abbronzatura lucida di chi ama crogiolarsi al sole. Un po’ appesantito ma sicuro nei movimenti che disegnavano quel sentirsi a suo agio nel mondo.

Mi introdusse in giardino e nell’odore invitante del barbecue. Un formicaio di persone affollava ogni angolo. Piatti e bicchieri tra le mani, sul lungo tavolo centrale e sui muretti bassi attorno alle palme, ai trionfi di agavi e buganvillea viola.

Alcuni mi vennero incontro, e li riconoscevo. Ma le loro energiche strette di mano non frenavano l’urgenza di una birra gelata, che superava ogni mio interesse di fare conversazione. L’entusiasmo sembrava d’obbligo in quel luogo. Ogni respiro, sudore e sguardo era intrappolato in una rete larga di complicità e smania di divertimento.

I corpi erano sintonizzati fra cibo, musica, dialoghi e voci divertite di bambini assiepati vicino ad un’altalena rossa.

“Allora Sergio, come va a Milano? L’agenzia?”

“Bene, bene. Tra un paio di giorni rientro. Ho fatto fuori un po’ di stanchezza accumulata…”

“Abiti sempre da solo in quel bivani?”

“Sempre! Amata singolitudine!”

Da tanto ormai non ci sentivamo. Alessio aveva divorziato, continuava la sua attività da commercialista, la figlia studiava in Inghilterra. Nell’aggiornarci, si diramava comunque, in un gioco di specchi, il profilo resistente di quei ragazzi di un tempo.

Più o meno le stesse domande mi rivolsero altre quattro o cinque persone, che non vedevo da decenni e verso le quali non provavo la medesima curiosità.

In quei momenti, avrei voluto che la musica sovrastasse ogni possibilità di interloquire e mi mantenesse in quello stato piacevolmente sospeso, incurante di ogni routine e punteggiatura. Il calore della giornata trascorsa al mare mi avvolgeva, ammorbidendomi i sensi. O forse era l’effetto della seconda birra: non ammetteva obblighi di circostanza e inibizioni.

Fu probabilmente maldestro il mio modo di staccarmi dal grappolo di chiacchiere per andare a sprofondare nella sdraio finalmente libera, che già da un po’ continuavo a puntare.

Era la volta di Scar Tissue, a far da sfondo amabile al mio piatto di delizie.

A un certo punto, la vidi. Biondissima, i capelli fluenti sulle spalle nude. Un vestito bianco fedele alla morbidezza del corpo. Le labbra carnose dominanti su un viso dai tratti delicati, infuocato dal sole o dai sorsi di prosecco. Seguiva con lo sguardo due gemelli identici di cinque o sei anni. Biondi, stessi suoi tratti delicati, mai fermi un attimo nei loro completini uguali ma di diverso colore. Scorrazzavano sudati, li richiamava e li avvicinava con bicchieri d’acqua, l’espressione vigile e sorridente. Avevo la sensazione di conoscerla.

Intanto Alessio passava in ricognizione i suoi ospiti. A chi toccava una spalla, a chi offriva una battuta, un’occhiata o un sorriso.

Purtroppo qualcuno cominciò a richiedere a gran voce i balli di gruppo e presto la musica volse al peggio! Avrei preferito un’improvvisa sordità.

Lasciai spazio alle performances e mi avvicinai alla zona appartata dove lei si era seduta, gustando un dolce mentre sbirciava il cellulare.

Fu allora che riconobbi quel neo sul dorso della mano. Mi sovvenne il nome, Irene. La ragazza che avevo conosciuto più o meno venticinque anni prima.

Forse il mio stupore attirò la sua attenzione, perché in quel preciso istante sollevò lo sguardo e m’inquadrò. Gli occhi d’acquamarina fermi a riflettere. Imbarazzato, mi voltai. Ne ero certo, era proprio lei. Possibile che non mi stesse riconoscendo a sua volta?

Un fremito mi riportò indietro a quella notte fresca, d’inizio estate.

Alessio mi aveva chiesto di accompagnarlo dai suoi zii giunti da Bologna per le vacanze.

Giusto il tempo di salutarli. Entrambi ventiduenni, avevamo condiviso molte esperienze. Un’amicizia profonda che era cresciuta con noi, avviluppata nelle nostre metamorfosi.

Quando arrivammo, la famiglia riunita in gran numero aveva appena finito di cenare nel vano all’aperto. La zia di Alessio stava sparecchiando aiutata da alcune donne, mentre gli uomini fumavano e parlavano animatamente intorno a una bottiglia d’amaro.

Le voci si sovrastavano a vicenda. Ma una persona mi colpì come una frecciata.

Una ragazza che parlava un po’ distrattamente con i cugini. Magrissima, scolpita nelle ossa. Un abitino corto le scopriva le ginocchia puntute. I capelli biondi cascavano intorno al volto spigoloso, puntualmente truccato, e agli occhioni d’un verde liquido, trasparente, come il mare quando ti sorprendi ad ammirarne il fondale.

Lo smalto prugna dava colore alle dita scarnificate, piene di anelli, che tamburellavano l’orlo di un bicchiere. Notai quel neo sulla mano, come un chicco di caffè.

Alessio mi presentò alla famiglia, mentre ci offrivano prontamente del gelato.

“No, Irene non può mangiarlo. Ha perso venti chili, adesso è passata alla dieta di mantenimento. Per accedere all’accademia di danza purtroppo sono necessari molti sacrifici!”

La madre, anch’essa di corporatura esile, spiegava così agli ospiti, enfatizzando misure e regole restrittive.

Come una sorta di eco Irene ripeteva gran parte di quel discorso.

Era una bambolina da cui risuonava un dischetto impiantato all’interno.

In quelle movenze diafane, ogni gesto seguiva un ritmo muto o una danza interrotta.

L’abitino a fiori scivolava sul corpicino dolce e stremato. Mi guardava. Erano piccole onde calde che mi sfioravano. “Ti piace qui?” le chiesi. E subito la considerai una domanda banale. “Sì molto, adoro il mare. Ho bei ricordi da queste parti. Quando ero piccola ci venivamo spesso.”

E, mentre parlava, si stringeva come a chiudersi in un abbraccio.

“Anch’io sono in vacanza… dai miei. Studio economia a Milano. Tu?”

“Ho concluso il quarto anno del liceo coreutico. Ballo da sempre, sai…”

Fu a quel punto che i ragazzi proposero di scendere in spiaggia. Alessio mi guardò e feci cenno di sì. Prima mi recai in bagno, trovandovi un ordine inquietante. Gli asciugamani allineati. E lo erano anche le bottiglie di profumo, i vari prodotti per la toilette, le spazzole e le piantine grasse.

Oltre allo specchio luminoso sul lavandino, un altro lungo specchio ovale occupava l’angolo e, pressoché centrale, campeggiava una bilancia. Doveva essere nuova, di quelle professionali. Avevo la spiacevole sensazione di sporcare e di turbare quell’asettica geometria.

Erano già scesi tutti. Alessio si trovava impegnato in una qualche richiesta dello zio, armeggiando tra antenna e televisore. Disse che mi avrebbe raggiunto dopo.

Irene aspettava davanti alla porta. Prendendomi la mano, mi trascinò per le scale.

La sabbia fu presto sotto i nostri passi. Lasciammo le scarpe e affondammo i piedi in quel velluto granuloso e fresco. L’odore del mare impregnava l’aria, aderendo con un velo umido sulla pelle. Irene cominciò a muovere passi di danza e a volteggiare nel vestito che non riusciva a trattenerla. Un filo di vento giocava con le sue ciocche di capelli. Si attaccavano al rossetto e lei continuava a rimuoverle, sporgendo un po’ le labbra come a baciare l’aria.

Poi si mise a mormorare una canzone dei Prozac+.

Ci avvicinammo alla riva e alle sonorità dell’acqua che lambivano la sua voce, producendo un’armonia delicata, sommessa. Il cielo era un’esplosione di stelle.

Mi sembrò ancora più minuta, fragile, un puntino luminoso precipitato senza quiete.

Gli altri erano più avanti, li sentivamo in lontananza.

D’un tratto, fu scossa da un tremore improvviso. Non cantava più. I suoi occhi ingoiavano la notte e i distanti luccichii. “Che succede, hai freddo?” le chiesi preoccupato.

“A volte mi prende così…ho dentro un terremoto.”

Il viso si corrugava e le lacrime sgorgavano silenziosamente, senza preavviso e copiose. L’acquamarina veniva giù e immaginai che sciogliesse la pelle e ogni margine di lei, fino a scoprire lo scheletro della sua anima affamata. “Se stai male, torniamo dentro…”

Annuì. Malferma sui passi, appoggiata alla mia spalla.

Sua madre ci venne incontro e prese ad accarezzarle il viso e le mani. Non si allarmò più di tanto. Piuttosto, appariva contrariata. Alessio suggerì di contattare la guardia medica, ma la signora abbassò il capo, abbozzando un sorriso “Succede a volte, quando è stanca. Oggi è stata tanto al mare e poi si è allenata. Grazie, ragazzi. Andate pure, non preoccupatevi.”

La vidi attorniata dai parenti, mentre la madre continuava a rassicurare tutti minimizzando, e la conduceva attraverso il corridoio. Irene si voltò un istante con uno sguardo che riempì tutto lo spazio. Dopo non la vidi più.

E, quando chiesi di lei, Alessio mi rispose che avrebbe dovuto fare dei controlli e che presto sarebbe stata ricoverata. Mi era parso reticente.

“Tutto bene?” mi cinse con un braccio, scuotendomi dai ricordi.

“Tranquillo Alessio, ho solo un’allergia ai pezzi latino-americani!”

Ridemmo, intrattenendoci un po’a rievocare i nostri trascorsi più divertenti.

Ogni tanto scorgevo Irene parlare con gli amici. Un sorriso trapelava libero. Da lì potevo guardarla senza essere notato. I gemelli le si sedettero accanto e poggiarono la testa sulle sue braccia.

Pensavo che il nitore della luna piena riuscisse a circondarla e l’acquamarina di quegli occhi brillava, solida, incastonata al centro della notte.

Non aveva l’aspetto fisico di una ballerina e qualunque traccia del dolore di quella ragazza non era più visibile.

Il terremoto era lontano, strati di vita si erano ispessiti sulle faglie di allora, componendo negli occhi acquamarina la lucentezza di quella pietra.

Vidi un uomo brizzolato sfiorarle i capelli, poi prendere in braccio uno dei gemelli, che forse si era addormentato.

Lei, la borsa sotto il braccio, teneva per mano l’altro che piagnucolava. Mi sfilarono davanti, dirigendosi all’uscita.

Irene mi guardò un attimo, o forse durò di più.

In una sera estiva l’avevo conosciuta e in una sera estiva, in una convivialità di un’altra dimensione, passata attraverso una misteriosa rinascita, la ritrovavo. Ed era se stessa.

Mi sento grande come una città, come una città… La musica era cessata e potei sentirla chiaramente canticchiare, mentre oltrepassava il cancello. Elegante e fiera.

 

Elena Cimino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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